Quella carota abbandonata sul marmo di cucina. Doveva diventare parte di un ragù, quando ho dovuto mollare tutto per correre da te che piangevi. Un ragù che non ho mai preparato.
Tanta nebbia nella mia testa, immagini confuse e sovrapposte: il pronto soccorso, il tuoi occhi che mi guardano per la prima volta, quel macchinario a cui mi sorreggo per non morire, la tua testa piena di capelli, il collo del tuo Papà a cui mi aggrappo con le braccia quando l’onda del dolore risale la marea. Il corridoio asettico della sala parto, le braccia dell’ostetrica che tento di afferrare mentre imploro di essere aiutata, la tua manina che mi stringe, la mia testa zuppa di sudore. Attimi di coscienza/incoscienza, vado e vengo dalla realtà a seconda di come il dolore sale. Tu che fai la pipì sul fasciatoio, quella doccia rimandata e finalmente avuta, il letto sfatto, i tuoi biberon in giro. L’immagine delle mie braccia alzate nel vuoto, in cerca di aiuto. Io che penso “morirò“.
Immagini che si mescolano, e sovrappongono. Il prima e il dopo che lottano come guerrieri, non so fare cielo limpido nella mia testa. Piango. Gocce salate invadono le mie guance, spavalde, incuranti della mia timidezza a mostrare il dolore.
Sei un geroglifico messo nelle mie mani, non so decifrarti. Sei un linguaggio che non so, non conosco. Piangi tu, piango io. Di notte non dormi, non so cos’hai. Vorrei aiutarti ma non ne sono capace. Non ho il tuo libretto di istruzioni. Il corpo ancora pieno di dolori non mi aiuta a trovare lucidità. Dov’è la mia vita di prima? Dove sono finite le cose che amavo fare? Come si diventa madri?
Dipendi da me, ti abbandoni nelle mie braccia e sai già che ti terrò. Ti tengo. E mi fermo a scrutare i tuoi occhi, mente calmo mi osservi. Sembrano pozzi profondi, spazi sconfinati. Mi ci perdo dentro per un tempo che non so contare. Forse senti la mia paura, perché quando torno, la tua manina si muove verso di me. L’afferro. La stringo nella mia. Forse vorresti aiutarmi. Come mentre ti stavo regalando al mondo e tu spingevi insieme a me, non mi hai lasciata sola nel momento di fatica. Sei stato forte e bravo. Sei l’infinito che come Donna non potevo immaginare, prima di averti. Il senso profondo della vita, sensazione agrodolce come dice il tuo Papà.
Succede, grazie ai tuoi occhi, che improvvisamente il tuo geroglifico mi diventa familiare. Lo traduco, anche se a volte sgrammaticato. Mi ritrovo a parlare due lingue: la tua e la mia.
Allora forse è così che succede…che il tempo ci dona capacità di comprensione. Forse è questa la strada: camminare insieme, tenerci per mano. Piangere e ridere. Imparare a leggere di nuovo, come quando ero alle elementari. E insieme far vedere a te che so già farlo, che posso guidarti.
Adesso però fammi ammirare ancora i tuoi occhi profondi che cercano la luce fuori dalla finestra. Guardiamo ancora quest’alba insieme e questo nuovo giorno che nasce per noi.
L’alba del nostro primo mese.